Valle d’Aosta: la mia esperienza nel rifugio ARP

Durante la quarantena c’è chi può rimanere sdraiato sul letto a contemplare il soffitto oppure chi, per passare il tempo, riprende in mano vecchie foto e vecchi video, rivivendo avventure passate con l’idea di programmarne di nuove.

Personalmente (come forse tutti gli amanti della montagna) appartengo alla seconda categoria, quella dei sognatori. Così oggi ho deciso di raccontarvi della mia esperienza in rifugio in Valle d’Aosta nell’estate del 2019.

L’idea nacque nel momento in cui decisi di prendermi un anno sabbatico al termine degli studi.  Un anno dove immedesimarmi nell’autore del romanzo che inevitabilmente tutti noi siamo chiamati a scrivere, più o meno coscientemente: “La mia vita”.

Pochi erano i miei punti fermi, le mie aspettative. Una di queste era la volontà di passare parte di questo periodo nel luogo che più sarebbe riuscito a trasmettermi emozioni forti, quello che più amo al mondo: la montagna.

Così, dopo essermi mosso preventivamente mandando in giro email a raffica ,ad inizio Giugno mi sono ritrovato nella zona di Fanes, luogo a dir poco incantevole situato vicino a San Vigilio di Marebbe, nella valle adiacente a Cortina d’Ampezzo. Insomma, dei gran posti!

Ma che c’entra la Val D’Aosta? Perché ve ne sto parlando? Arriviamo subito al dunque. 

Inizialmente rimasi subito intrigato dalla buona offerta economica ed incitato dal desiderio di vivere nella regione che ha caratterizzato la mia infanzia, il Trentino. Purtroppo però in gioco c’erano anche altri fattori. 

Quelle zone sono abitate da una minoranza tanto piccola e sconosciuta quanto orgogliosa e gelosa della propria terra, in cerca di professionisti del settore turistico in grado di garantire il massimo del comfort anche a quelle altitudini: i Ladini.

Di conseguenza mi ritrovai catapultato in un albergo a 2000 metri nel quale facevo fatica a dare il mio contributo. Tutto questo non rispecchiava, e tutt’ora non rispecchia, quei valori di essenzialità e sobrietà che la montagna dovrebbe trasmettere. Dunque, come la più banale delle leggi economiche ci insegna, quando domanda ed offerta non si incontrano, non c’è futuro.

Qualche mese prima della partenza per la Val D’Aosta, seduto su una spiaggia caraibica di fronte all’oceano Atlantico (Cosa? Ma quando? Ma dove?…. questa è un’altra storia che avrà il suo momento per essere raccontata), ho intrapreso una videochiamata conoscitiva con Armand, un francese di una quarantina d’anni (che se ne sente venti di meno) che gestisce assieme a sua moglie Laura il rifugio Arp a 2500 metri d’altezza (2446 per l’esattezza) tra i giganti d’Europa, in Valle d’Aosta.

Il fato ci ha fatto conoscere, la provvidenza ci ha fatto incontrare. Proprio in quel periodo si era liberato un posto in cucina e così facemmo in modo che quelle due famose curve di domanda ed offerta si rincontrassero nuovamente.

In due giorni sono sceso da Fanes a Bologna, ho riorganizzato le valigie e sono ripartito tra mille dubbi ed incertezze verso una nuova meta: la Valle d’Aosta. “Chi l’ha mai vista la Valle d’Aosta? Una cucina? E chi ha mai lavorato in una cucina? Chissà come saranno queste persone? Ho già avuto una brutta esperienza, questa lo sarà altrettanto?” Forse è vero, vola solo chi osa farlo; e allora perché non osare!

A metà giugno sono partito. Dopo 4 treni, un pullman ed un passaggio in pick-up, il tutto rigorosamente sotto una copiosa pioggia, sono finalmente arrivato a destinazione in quella che sarebbe stata la mia casa ed il mio luogo di lavoro per i successivi due mesi e mezzo.

Quello che troverete di seguito non vuole essere un diario dettagliato delle mie giornate in quei luoghi, né tanto meno vuole rappresentare un “manuale di sopravvivenza” per la vita in montagna. Ciò che segue sarà il racconto della mia unica e personale esperienza di vita in rifugio. Una vita tanto frenetica, quanto semplice e necessaria, dove il tempo al ritmo della natura incontaminata si mescola alla frenesia del lavoro di squadra in rifugio.

Zaino in spalla e partiamo!

ARP: il rifugio

rifugio-arp

Come raggiungere il rifugio ARP:

E’ possibile arrivare in rifugio in treno, come ho fatto io. Le tratte da Bologna sono: Bologna-Milano, Milano- Chivasso, Chivasso-Ivrea, Ivrea-Verres. Poi da Verres si prende il pullman che arriva a Brusson, a 1338 di quota. D’inverno c’è un’ulteriore navetta che ti porta ad Estoul a 1815m, dove parte un impianto sciistico. Io sono arrivato al rifugio grazie al passaggio in pick-up di Armand. Con la macchina si può arrivare fino ad Estoul con strada asfaltata. Da Estoul si cammina per un’ora e mezzo a piedi (la strada è interdetta ai non residenti) e si sale fino a 2446 metri, dove si trova il rifugio. Questo è situato poco sotto i laghetti di Estoul che sono a 2500 metri d’altezza, altitudine minima consentita in Valle d’Aosta alla quale si può dormire in tenda.

L’ARP è il nome del rifugio, potete trovare tutte le informazioni QUI

Una struttura grande, in grado di ospitare un centinaio di persone, costruita con grosse pietre che sembrano essere state prese direttamente dal ghiaione della montagna sul retro del rifugio.

Fuori si trova una veranda per mangiare all’aperto e poco più in là, proprio sul dirupo che dà sull’ altopiano sottostante, dove sono solite pascolare le mucche, si ergono tre aste con bandiera (una europea, una italiana ed una rossa e nera, che avrò scoperto solo successivamente essere quella della Valle d’Aosta) poste a segnalare agli escursionisti che si stanno avvicinando al rifugio.


Al mio arrivo vi erano ancora importanti lingue di neve, residui di un inverno rigido che stava lasciando definitivamente il posto alla primavera. Infatti, nonostante l’altitudine, tutta la zona circostante era ricoperta di erba e piccoli cespugli. Uno spettacolo nuovo per me, abituato alle montagne del Trentino Alto Adige dove a 2500 metri la vegetazione ha già lasciato spazio alle rocce. Ora però, ero al cospetto dei giganti d’Europa, montagne che arrivano fino a 4000 metri. Questa cosa mi incuriosì molto e mi sorprese.

Per raggiungere il rifugio da valle, come vi ho già accennato, vi è una sola strada sterrata, che esce dal bosco e si avvicina al rifugio zigzagando sul piccolo altipiano sotto al rifugio. Una singola strada che conferisce alla struttura una certa importanza come meta finale del viaggio e lo rende molto simile ad un castello inespugnabile della tradizione medioevale. A prima vista si capisce subito che non si tratta di un albergo, ma di un rifugio alpino, senza troppi lussi ma con tutto il necessario!

Gli ospiti possono trovare un luogo caldo dove asciugare i propri vestiti, una cena con menù fisso per ricaricare le energie, delle camere spaziose e delle docce per lavarsi. Più che sufficiente per un soggiorno ad alta quota. Non potrete comprare gelati ad esempio, in quanto non sono beni necessari e costituiscono uno spreco di energia. L’utilizzo delle docce dovrà essere veloce, in quanto l’acqua calda è limitata poiché scaldata da pannelli solari. Non sarà consentito utilizzare un phone, per non far saltare gli impianti elettrici mantenuti da un generatore a benzina. Insomma, un rifugio che offre tanto per quel luogo ma che ha bisogno di regole che vanno seguite e rispettate, perché nulla in un rifugio è dato per scontato. Queste sono regole semplici, purtroppo per alcuni non sempre di facile comprensione.

Lavorare nel rifugio ARP

rifugio-arp

Inquadrato il luogo, vi racconto ora di quella che è effettivamente la vita di rifugio.

Come mi disse una volta Armand, il gestore della struttura, il trend delle presenze in rifugio segue una cuspide che va a toccare il suo punto più alto durante le due settimane di ferragosto, per poi ridiscendere fino alla chiusura a metà settembre.

Quando sono arrivato, a Giugno, la montagna era ancora ‘congelata’ dall’inverno appena terminato. Il periodo iniziale è servito come riscaldamento: conoscere l’ambiente circostante, guidare il pick-up su e giù lungo la strada sterrata per andare a prendere le provviste a valle (non so quanti di voi lo abbiano mai fatto, ma non è cosi facile guidare un pick-up su quella strada), capire l’organizzazione del lavoro in cucina e nel rifugio in generale.

Durante questa prima fase è stato fondamentale padroneggiare poche cose ma fatte bene. Questo era più o meno la legge che governava nella struttura ed era il riflesso delle personalità dei gestori. I concetti fondamentali da ricordare erano: essere in orario; avere un po’ di “sbuzzo” (tradotto: avere dell’inventiva) e voglia di mettersi in gioco. Tutte cose essenziali per coloro che sono abituati ad andare in montagna e viverla.

Questa primo mese di Giugno è stato il mese di apertura e preparazione dell’alta stagione. E’ stato preparato tutto l’occorrente per portare a termine con successo la stagione estiva: preparazione del magazzino, predisposizione del percorso botanico sul retro e manutenzione generale del rifugio dopo che i banchi di neve avevano inevitabilmente arrecato qualche danno alla struttura.

Con grande nostalgia ricordo un bel pomeriggio soleggiato in cui io ed ed Armand ,assicurati con delle corde, ci siamo arrampicati sul tetto ed abbiamo rimosso le protezioni d’acciaio dei pannelli solari e garantire acqua calda agli ospiti del rifugio.

Tutto Luglio invece è stato propedeutico al “boom” di Agosto, con week-end pieni (uno in particolare con il rifugio completamente affollato, che ancora sogno di notte) di ospiti, dove oltre agli sporadici visitatori locali iniziavano ad arrivare anche famiglie e visitatori da regioni diverse. Questo periodo è stato molto utile per prendere le misure della vita in rifugio e soprattutto affiatare la squadra (non uso “team building” perché Armand detesta questo termine). Le persone che anno affiancato questa mia esperienza, oltre agli ormai citati e noti Armand e Laura, sono state altre due ragazze, di una ventina di anni, che aiutavano in sala. Chiara da Milano ed Elena da Zubiena (provincia di Biella).

Devo molto a loro, sono state davvero due amiche con la “A” maiuscola. Persone amabili ed affabili con le quali è nata un’alchimia naturale sin da subito e con le quali era bello passare del tempo e scherzare. Erano anche le uniche persone con le quali poter avere contatti stabili.

L’ultimo ricordo di Luglio che voglio condividere con voi è la Monterosa Walser Trail. Una gara di corsa di 114 km che ha luogo l’ultimo week-end del mese di Luglio. Noi abbiamo ospitato i partecipanti che necessitavano ristoro intorno al settantesimo kilometro del percorso complessivo.

I corridori erano partiti il venerdì sera. Proprio quel giorno l’orizzonte era pieno di grosse nubi nere, cariche di pioggia e solcate da fulmini abbaglianti. Non avrei mai voluto essere nei loro panni. Il sabato è stata una giornata avvolta da un forte alone di attesa. E’ piovuto tutto il giorno, con brevi schiarite qua e là. Durante tutta la giornata solo i corridori, di cui meno della metà di quelli partiti ad inizio gara, sono venuti a farci visita. I primi sono arrivati intorno alle 8 della mattina, ed abbiamo aspettato gli ultimi fino alle 10 di sera. A farci compagnia in rifugio era presente il personale del soccorso alpino. Vedere quegli uomini e quelle donne che, nonostante la nottata bagnata sulle montagne, erano ancora in piedi a correre per i sentieri mi ha colpito molto. Una prova di volontà davvero rara. Quella è stata l’occasione per scambiare qualche chiacchiera al punto ristoro con loro e con i ragazzi del soccorso alpino ed imparare nuove cose sulla montagna.

Ad Agosto invece c’è stata una piccola rivoluzione, già programmata, all’interno dello staff. Chiara è tornata a casa per esigenze personali e sono saliti in rifugio Sara e Valentina, due ragazze di Milano, con Nicolas, il più piccolo, un valdostano DOC di un paio di valli più in là. Infine per la settimana di ferragosto è salita Alina, una ragazza piena di voglia di fare che aveva già lavorato in rifugio in passato.

Con il nuovo lo staff e spesso con l’aiuto prezioso dei genitori di Laura, abbiamo affrontato a testa alta il mese più caldo e duro dell’anno. Per le prime due settimane non abbiamo fatto giorni di riposo perché i ritmi erano incalzanti, dato che dopo i clienti del pranzo si susseguivano immediatamente gli ospiti della sera e così via. Non è stato semplice, soprattutto considerato il fatto che venivamo già da un mese e mezzo di lavoro intenso e non nego che ci sono stati momenti di difficoltà. Abbiamo però saputo gestire la situazione e, dopo queste due settimane difficili, anche la pressione psicologica si è allentata. Avevamo superato il momento più complicato di tutta la stagione: un bel traguardo!

Ricordo con tanto piacere una serata dedicata alle stelle (non ci facevamo proprio mancare nulla!) con degli esperti che ho accompagnato personalmente in rifugio con il pick-up. Ci hanno mostrato, grazie all’ausilio di fantastiche strumentazioni, Saturno e le costellazioni del Cigno, del Sagittario, Cassiopea, Cefeo, l’Ercole, Botes, ed il Triangolo Estivo e chi più ne ha più ne metta. Una serata magica che mi ha fatto perdere la cognizione del tempo.

Vita in rifugio: la giornata tipo nel rifugio ARP

rifugio-arp

Al rifugio ARP i giorni erano molto simili: il lavoro cominciava alle 8 (7.30 se vi erano molti ospiti), quindi la sveglia era di conseguenza, seguita da una rapida lavata e dalla colazione. Due erano le cose fondamentali per iniziare: mettere una polentiera sul fuoco per riscaldare l’acqua, che avremmo usato in cucina (il risparmio era fondamentale e quindi in cucina era possibile usufruire di acqua calda solamente se scaldata) ed andare nella casetta a poche decine di metri dal rifugio dove batteva il cuore della struttura, il generatore elettrico. Per la verità ve ne erano due: uno che attingeva direttamente dalla cisterna del carburante ed uno che aveva bisogno di essere caricato ogni mattina, a mano, con una tanica. Lascio a voi, cari lettori, immaginare quale dei due non funzionasse e quale sì. E’ buffo pensare a come tutta la vita del rifugio fosse vincolata al funzionamento di quel generatore. Ogni cosa dipendeva da lui. Un piccolo malfunzionamento e si chiudeva battenti. Io ero la persona incaricata al generatore e questo mi rendeva pieno di orgoglio e mi faceva sentire pieno di responsabilità; un po’ come il ferroviere che, con il suo fischio, segnala l’imminente partenza della locomotiva!

Una volta lavate le stoviglie della colazione e ripulita la sala, ci si dedicava alle pulizie delle camere ed alla preparazione del menù per il pranzo, il quale offriva pressoché sempre polenta (concia o meno) con ratatuille di verdure o spezzatino o salsiccia o funghi, taglieri di formaggi e salumi misti, crespelle alla valdostana, passato di verdura e tomini con miele e noci.

Alle 11.30 lo staff si radunava per mangiare ed alle 12.00 la cucina apriva i suoi battenti. Il servizio del pranzo era sempre un’incognita. Non si sapeva mai quante persone sarebbero arrivate. Sicuramente con brutto tempo gli ospiti non sarebbero stati molti. Il mistero rimaneva fino a servizio terminato, poiché molti erano i sentieri che affluivano al rifugio ed era impossibile prevedere quante persone sarebbero salite per il pranzo.

Tra le 15.00 e le 16.30 si chiudeva la cucina. Avevamo tempo libero fino alle 17.30, quando si tornava in cucina per preparare il servizio serale, che iniziava alle 19.00. Questo, insieme ad un giorno e mezzo a settimana che sfruttavo per esplorare la zona con escursioni, anche di 12 ore, era l’unico tempo libero che avevo a disposizione. Lo impiegavo quasi sempre per fare allenamento personale e per effettuare una corsa su fino all’innesto delle pareti di arrampicata, da dove anche il rifugio appariva piccolo in mezzo alla maestosità della natura.

Terminato il servizio serale e dopo avere ripulito tutto, la giornata si concludeva sorseggiando un bicchierino di liquore al Genepy, contemplando il cielo stellato e non inquinato da alcuna luce artificiale, in attesa di dare la buonanotte al rifugio con lo spegnimento del generatore elettrico.

Considerazioni finali ed ultima cartolina

Tanti sono ancora i ricordi che conservo nel cuore e tante le persone che sono venute a trovarmi al rifugio e con le quali ho condiviso tratti di questa avventura (pensate che un’amica in due giorni è venuta a trovarmi facendo andata e ritorno da Londra!).

Penso di essermi dilungato fin troppo e, se siete arrivati fino a questo punto della lettura vi ringrazio per la pazienza che avete avuto e per aver scelto di condividere il vostro tempo con me.

Vorrei lasciarvi con un’ultima immagine, probabilmente la più bella. La sveglia era impostata alle 5.30 di mattina, quando il sole non ha ancora fatto capolino da dietro le alte vette. L’intento era quello di andare a vedere l’alba che infrangeva i suoi freddi raggi contro la neve perenne del Monte Rosa, del Cervino e del Monte Bianco; proprio prima di una giornata di lavoro.

Superati due dei laghetti di Estoul presenti vicino al rifugio, il sentiero si inerpica su fino all’ alta via da dove a sinistra si raggiunge il Corno Bussola ed a destra il Corno Vitello. Amo quel tratto di sentiero perché oltre a qualche marmotta era possibile avvistare il profilo inconfondibile degli stambecchi, guardiani silenti di un mondo antico in grado di apparire e scomparire a loro piacimento tra le rocce.

Avvistati questi fantastici animali presi il sentiero verso il corno Vitello e da lì, salita la montagna per qualche altra decina di metri di dislivello, uscii dall’ombra per arrivare su una parte di sentiero già illuminato dalla luce del sole. A sinistra, guardando a Nord/ Nord-Ovest ci si ritrovava di fronte ai re d’Europa che, grazie alla luce riflessa sulla neve, sembravano brillare di luce propria stagliandosi su un cielo azzurro come un lago.

Quel posto e quella visione, mi fece perdere la condizione del tempo e mi regalò un senso di pace indescrivibile, facendomi capire quanto piccole fossero le preoccupazioni mondane e quanto fosse facile lasciare ogni dubbio o paura.

E così, con il fiato sospeso a fantasticare su quei luoghi incantati, termina questo viaggio, il quale spero abbia suscitato in voi curiosità, emozione e, perché no, anche voglia di partire.